L’emendamento – a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra economica – è un regalino della Commissione per gli Affari Israelo-statunitensi (AIPAC) su commissione del governo israeliano e del suo primo ministro Benjamin “Bibi” Netanyahu.
Si è cercato in mille salse di farlo passare come il “piano B” dell’amministrazione Obama: l’alternativa? Lasciare i guerrafondai israeliani liberi di condurre un attacco unilaterale contro l’Iran e i suoi presunti programmi nucleari.
La verità è che la strategia israeliana era, se possibile, ancor più folle: impedire a qualunque Paese – a eccezione di Cina e India, forse – di acquistare il petrolio iraniano. Per di più, i sionisti americani hanno cercato di convincere tutti che ciò non avrebbe dato luogo a impennate sfrenate dei prezzi nei listini.
Intanto anche i governi dell’Unione Europea, con la loro impareggiabile capacità di tirarsi la zappa sui piedi, si sono messi a discutere se comprare o no il petrolio di Teheran. Il dubbio esistenziale è se smettere da subito o aspettare ancora qualche mese. Il risultato inevitabile, come la morte e le tasse – poteva essere altrimenti? – è stata l’ennesima impennata dei prezzi. Il greggio si aggira attorno ai 114 dollari al barile, e non accenna a diminuire.
Il mio regno per un barile
L’Iran è il secondo maggior produttore dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) con qualcosa come 2,5 milioni di barili di export al giorno. Di questi, circa 450mila finiscono in Europa, il secondo mercato dell’Iran dopo la Cina.
L’anonimo burocrate di turno, il commissario UE per l’energia, Gunther Ottinger, ha vagheggiato che l’Europa potrebbe compensare con il petrolio dell’Arabia Saudita la perdita di forniture iraniane.
Ma qualsiasi analista che si rispetti sa che l’Arabia Saudita non possiede sufficienti riserve extra. Inoltre, dettaglio cruciale, i sauditi hanno tremendamente bisogno di far fruttare il loro prezioso petrolio. Dopotutto, il regime controrivoluzionario di Riyad da qualche parte dovrà prendere i soldi per tenere i suoi sudditi lontani dalle tentazioni di una primavera araba.
Si aggiunga che Teheran minaccia di bloccare lo Stretto di Hormuz, impedendo così a un sesto del petrolio mondiale e al 70% dell’export del’OPEC di raggiungere i mercati. Niente di strano se è già iniziata la corsa dei commercianti di petrolio per mettere in salvo quanto più greggio possibile.
Scordatevi, d’ora in avanti, prezzi accessibili da 50 o anche 75 dollari al barile. I listini raggiungeranno i 120, magari 150 al barile entro la prossima estate, proprio come all’apice della crisi del 2008. L’OPEC, fra l’altro, sta pompando petrolio in uantità mai toccate dalla fine di quell’anno.
Così, quello che è nato come un ordigno improvvisato di fattura israeliana si è trasformato in un bombardamento economico a tappeto, che colpirà intere sezioni dell’economia globale.
Non c’è da stupirsi che il presidente della commissione per la sicurezza nazionale e le politiche estere del parlamento iraniano, Ala’eddin Broujerdi, abbia definito queste sanzioni un “errore strategico” dell’Occidente.
Tradotto: da adesso, il gioco dell’anno 2012 si chiama profonda recessione globale.
Obama lancia il dado
All’inizio Washington ha lasciato trapelare che le sanzioni alla banca centrale iraniana “non erano sul tavolo“. Dopotutto, l’amministrazione Obama sapeva benissimo che si sarebbero tradotte in un’impennata nel prezzo del petrolio e in un biglietto di sola andata per un’ulteriore recessione. Il regime iraniano, del resto, non farebbe che guadagnare di più dalle esportazioni di greggio.
Eppure il combo Bibi-AIPAC non si è fatto problemi a forzare l’emendamento presso i templi del sionismo americano, il Senato e il Congresso degli Stati Uniti, nonostante il Segretario del Tesoro Tim Geithner fosse espressamente contrario.
L’emendamento appena approvato potrebbe non rappresentare le “sanzioni paralizzanti” che il governo israeliano reclama a gran voce. Teheran sentirà la stretta, ma non al punto da non poterla sopportare. Solo quegli irresponsabili del Congresso,– invisi alla stragrande maggioranza degli elettori secondo tutti i sondaggi, potevano pensare di escludere dal mercato 2,5 milioni di barili di greggio al giorno senza conseguenze drastiche per l’economia globale.
L’Asia avrà sempre più bisogno di petrolio. Continuerà a comprarlo dall’Iran. E i prezzi del greggio continueranno a levitare nella stratosfera.
Perché allora Obama ha firmato? Per la sua amministrazione ora è tutta una questione di calcolo elettorale. Quei pazzoidi senza speranze del circo presidenziale repubblicano – con l’ammirevole eccezione di Ron Paul – vanno in giro a vendere la guerra all’Iran come la prima cosa che faranno una volta eletti, e fasce sostanziose dell’elettorato americano sono abbastanza sprovvedute da comprare le loro promesse.
Nessuno che faccia due più due riesce a capire che, al di sopra il tetto dei 120 dollari al barile, qualsiasi possibilità di ripresa per l’economia americana e europea dovrà per forza essere scartata dal mazzo.
Fuori le palle
A eccezione di quel consorzio autolesionista e ormai moribondo che è la NATO, tutti, ma proprio tutti, bypasseranno il proclama israeliano-statunitense di guerra all’Iran:
- la Russia ha già detto che lo eluderà;
- l’India sta comprando petrolio iraniano attraverso la Halk Bank, in Turchia;
- l’Iran ha avviato trattative per incrementare le vendite alla Cina, di cui è il secondo maggior fornitore dopo l’Arabia Saudita. La Cina paga in euro, e presto potrebbe passare allo yuan. Per marzo dell’anno prossimo sarà siglato l’ accordo sui nuovi prezzi;
- il Venezuela gestisce una banca bi-nazionale assieme all’Iran dal 2009: è così che Teheran raccoglie i pagamenti in America Latina;
- anche gli alleati tradizionali degli Stati Uniti si chiamano fuori. La Turchia, che importa dall’Iran circa il 30% del proprio fabbisogno petrolifero, cercherà di ottenere una deroga alle sanzioni per il suo importatore, la Turpas;
- anche la Corea del Sud è in cerca di un’esonero per poter acquistare dall’Iran nel 2012 200.000 barili al giorno, il 10% delle importazioni.
Cina, India e Corea del Sud intrattengono complessi accordi bilaterali con l’Iran (quello con la Cina vale già 30 miliardi l’anno, e verrà incrementato). Nessuno di questi accordi cadrà perché l’asse Washington-Tel Aviv ha deciso così. C’è da aspettarsi piuttosto una fioritura di nuove banche private, nei paesi in via di sviluppo, per la compravendita del petrolio iraniano.
Washington non avrà le palle per imporre sanzioni alle banche cinesi quando queste si metteranno a trattare con l’Iran.
Bisogna semmai ammirare le palle di Teheran. Nonostante la campagna incessante di uccisioni e rapimenti di scienziati iraniani, le incursioni nella provincia del Sistan-Belucistan, i sabotaggi israeliani alle infrastrutture per mezzo di virus e altro, le infrazioni territoriali compiute dai droni statunitensi, il terrorismo mediatico e le minacce non-stop da parte di Israele e dei Repubblicani, 60 miliardi di armi americane vendute all’Arabia Saudita, nonostante tutto questo, l’Iran non vacilla.
Teheran ha appena testato, con successo, i suoi missili cruise, e lo ha fatto proprio nello stretto di Hormuz. Una reazione alle raffiche incessanti dell’Occidente che è stata subito stigmatizzata come un “atto di provocazione“.
Venerdì scorso i redattori del New York Times dal primo all’ultimo hanno sposato la politica aggressiva del Pentagono e invocato “la massima pressione economica” nei confronti dell’Iran.
La verità è che a soffrirne sarà l’iraniano medio, come anche l’europeo medio, stremato dalla crisi e indebitato fino al collo. Ne soffrirà l’economia americana. E ogni volta che l’Occidente darà in escandescenze, Teheran si riserverà il diritto di mandare in orbita i prezzi del petrolio.
Il regime iraniano continuerà a vendere il suo greggio, ad arricchire il suo uranio e, soprattutto, non cadrà. Come un missile hellfire piombato su una festa di matrimonio pashtun, queste sanzioni mancheranno l’obbiettivo. E causeranno un bel po’ di danni collaterali. In Occidente.
Fonte: The US-Iran economic war
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DAVIDE ILLARIETTI
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