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L’UNESCO “riconosce” la Palestina

11/1/2011

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di Italo Romano
Oltre la Coltre Dal sito Peace Reporter apprendo una notizia che ha a dir poco dell’incredibile, anche grazie al fattore sorpresa con cui è saltata fuori. Un tempismo sospetto che sembra l’inizio di quella metodologia tanto cara ai fautori del Nuovo Ordine Mondiale: problema-reazione-soluzione. Leggiamo prima la notizia: “L’Assemblea generale dell’Unesco ha approvato l’adesione a pieno titolo della Palestinanell’organizzazione. Il ‘via libera’ rischia di creare una spaccatura con gli Usa, che avevano preannunciato di sospendere i finanziamenti all’Unesco in caso di un voto favorevole. I paesi che si sono astenuti sono 52, fra cui Italia e Gran Bretagna. Fra i 107 paesi che hanno votato a favore vi sono la Francia, oltre alla quasi totalità dei paesi arabi, africani e dell’America Latina. Stati Uniti, Canada e Germania sono fra i 14 voti contrari. L’adesione della Palestina come stato membro a pieno titola comporterà gravi conseguenze finanziarie per l’organismo Onu a tutela della cultura. Una legge degli anni Novanta impone infatti agli Stati Uniti di cessare i finanziamenti ad ogni organismo dell’Onu che accetti l’ingresso della Palestina come stato a pieno titolo. Attualmente Gli Stati Uniti sono il principale finanziatore dell’Unesco e contribuiscono al suo bilancio per il 22 percento. “Riteniamo che tutto ciò sia controproducente… l’unica strada per i palestinesi passa attraverso negoziati diretti“, ha detto il sottosegretario americano all’istruzione Martha Keller giusto prima del voto all’Unesco. Non è un caso che le autorità palestinesi abbiano scelto proprio l’agenzia delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura, per tentare il proprio ingresso nell’Onu. Infatti in questo contesto gli Stati Uniti non hanno potuto porre il veto, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) potrebbe richiedere il riconoscimento di alcuni siti dei territori come patrimonio dell’umanità”.

Può essere la miccia per accendere il conflitto finale, atto all’espropriazione definitiva della Striscia di Gaza? Certo.

Gli Usa “non possono accettare” l’adesione della Palestina, questo è quanto detto dal rappresentante degli Stati Uniti nell’Unesco, intervenuto alla sessione plenaria dell’Unesco dopo il voto favorevole ai palestinesi. Il rappresentante di Israele ha descritto il via libera come “una tragedia”. Insomma qualcosa di grosso bolle in pentola.



Andiamo indietro nel tempo, alla nascita di quest’organismo internazionale. L’excursus storico si rende necessario se vogliamo capire alcune delle mosse attuali del mondialismo.

L’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è stata fondata dalle Nazioni Unite il 16 novembre 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le nazioni nei settori dell’istruzione, della scienza, della cultura e della comunicazione. Si tratta di un’organizzazione mondialista, un’estensione particolare dell’Onu, dipendente dai soliti circoli d’élite (Bilderberg, Trilateral Commission, Aspen Institute etc.) che mirano alla globalizzazione totale. Il primo direttore generale dell’Unesco fu Sir Julian Huxley, fratello del più celebre Aldous Huxley autore di uno dei romanzi più profetici della storia “Brave new world” e promotore della diffusione delle droghe, e dei programmi di controllo mentale come MKUltra.

Nel 1946 Huxley scrisse un documento, quanto mai sinistro intitolato “UNESCO: il suo scopo e filosofia”, in cui affermò che tale organizzazione servisse per:

“contribuire a far emergere una singola cultura mondiale, con la sua propria filosofia e retroterra di idee e con suo proprio scopo. Questo è opportuno, poiché questa è la prima volta nella storia che sono disponibili l’impalcatura e i meccanismi per l’unificazione del mondo ed anche la prima volta che l’essere umano ha avuto i mezzi (nella forma di scoperte scientifiche e sue applicazioni) per porre una base mondiale per un minimo di benessere fisico di tutta la specie umana…”

(Julian Huxley, UNESCO Its Purpose and Its Philosophy (1946). Preparatory Commission of the United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation, page 61.)

Nulla di quello che decidono questi signori è per caso, e nulla è fatto per perseguire il bene comune. Questo deve essere chiaro a tutti.

Entriamo nello specifico. Julian Huxley è stato un biologo evoluzionista inglese, umanista e internazionalista. Padre del transumanesimo, ovvero della robotizzazione e quindi della diminuzione del fattore umano  nell’umanità per il bene dei pochi che ci controllano. Il transumanesimo è essenzialmente eugenetica, una scienza basata sulla filosofia darwinista applicata all’umanità, ovvero i forti che si evolvono e i deboli che soccombono. L’eugenetica si basa sulla necessità di affermare che vi sia un gruppo superiore e uno inferiore nella popolazione umana. Tali teorie sono poco sbandierate. Sarebbe molto svantaggioso e socialmente inaccettabile, dire pubblicamente che vi sono alcune razze, gruppi etnici o culturali che sono inferiori al resto della popolazione, ma in segreto, è proprio questo che l’elite degli eugenisti crede. Sir Julian fu membro della Società Eugenetica Britannica, di cui fu addirittura presidente per alcuni anni e fu autore di alcuni studi sulla riduzione della popolazione e la pianificazione delle nascite.

Ovvio è che le élite dei transumanisti non hanno alcuna intenzione di far “evolvere” tutta l’umanità, il loro obiettivo è quello di promuovere solo le loro linee di sangue e lasciare il resto della popolazione, sofferente, in modo che essa non abbia altra scelta che diventare loro schiava, cavia da laboratorio e ovviamente forza lavoro. Non è proprio quello che sta avvenendo?

“Gli strati più bassi della popolazione si riproducono troppo in fretta. Quindi … non devono avere accesso facile alle strutture di soccorso o agli ospedali in quanto questi ostacoli alla selezione naturale, faciliterebbero la sopravvivenza e la riproduzione ulteriore del volgo. La disoccupazione a lungo termine dovrebbe comportare la sterilizzazione dell’individuo “.

Queste parole appartengono sempre al primo direttore dell’Unesco, Sir Julian Huxley. Mostruoso, vero?

Qual’è oggi la mission dell’Unesco? A che punto sono arrivati gli studi nel campo dell’eugenetica? Credo che la fantascienza non sia in grado di descrivere i progressi tecnologici raggiunti in gran segreto da questo cenacolo di mecenati. Noi restiamo muti a guardare, pensando di aver capito tutto, mentre a noi è riservata solo la superficie degli eventi.

Che questo grido “palestina libera” non sia una specie di canto del cigno.

http://www.oltrelacoltre.com/?p=11317


Tratto da: L’UNESCO “riconosce” la Palestina | Informare per Resistere http://informarexresistere.fr/2011/11/01/l%e2%80%99unesco-%e2%80%9criconosce%e2%80%9d-la-palestina/#ixzz1cT5qNv3F
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

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Dall'Islanda all'Italia, la strada dei diritti per uscire dalla crisi

11/1/2011

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Cosa può insegnarci la vicenda islandese? Quali le differenze e quali i punti in comune con ciò che potrebbe accadere in Italia? Il percorso di democrazia partecipata e di riappropriazione dei diritti iniziato in Islanda è realmente trasferibile altrove? Cerchiamo di rispondere a queste ed altre domande, per chiarire i dubbi e le perplessità dei lettori sulla 'rivoluzione silenziosa'. di Andrea Degl'Innocenti - 19 Luglio 2011
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Il popolo islandese ha affermato che le decisioni sul futuro di una nazione non si possono prendere in qualche palazzo
Giorni fa vi abbiamo raccontato in un articolo di come il popolo d'Islanda abbia intrapreso un percorso democratico di riappropriazione dei propri diritti, a scapito della finanza globale. Torniamo a scrivere dell'argomento - visto il grande interesse suscitato - per chiarire alcune delle questioni più controverse della vicenda islandese, così come sono emerse dai commenti dei lettori. Procederemo con ordine analizzando punto per punto ogni aspetto, riproponendo le domande e le curiosità così come ci sono state poste e cercando di fornire una lettura il più possibile realistica di quanto accaduto in Islanda e delle eventuali connessioni con la situazione dell'Italia e del resto d'Europa.

Chi pagherà il debito? Una delle domande più ricorrenti è proprio questa. Già, chi paga? Come spesso accade, le domande più semplici sono anche le più complesse a cui rispondere. Per adesso la risposta è: nessuno. Lo stato islandese si è trovato nella morsa di due diverse forze, l'una che spingeva dall'alto, l'altra dal basso. Esso doveva rispondere da un lato ai propri cittadini, che si rifiutavano di pagare un debito contratto da enti privati (le banche) nei confronti di altri privati (i cittadini inglesi ed olandesi); dall'altro ad accordi internazionali e potentati finanziari che imponevano il pagamento del debito contratto, con qualsiasi mezzo e a costo di ridurre alla fame la popolazione islandese. Alla fine è stato deciso di dare la parola ai cittadini, affermando un principio sancito da molte costituzioni ma la cui applicazione appare quasi un atto rivoluzionario: che la volontà del popolo sovrano è superiore a qualsiasi altro accordo internazionale.

Ci rimetteranno i cittadini inglesi ed olandesi? Sì, in un certo senso. Se il debito non verrà pagato a rimetterci saranno, in parte, anche i contribuenti d'Olanda e Gran Bretagna. I due stati creditori hanno già provveduto a rimborsare i propri cittadini titolari del conto IceSave, che sta alla base della controversia, dunque si sono fatti carico di tale debito. Significa che quei quattro miliardi circa di credito che i due paesi avevano verso l'Islanda non ci sono più, dunque non verranno più considerati nel bilancio statale. Ci saranno delle ripercussioni sui cittadini? Possibile, ma saranno comunque impercettibili. Il peso specifico che questa cifra assume sull'economia britannica o olandese non è paragonabile a quello che avrebbe assunto sull'Islanda. Ciò che conta, però, è che per una volta – forse la prima – si è smentito l'assioma del debito, uno dei mali peggiori che attanaglia le società contemporanee.

Certo, la questione non è affatto semplice, come vedremo più avanti. Inoltre va ricordato che la faccenda del debito islandese non è ancora del tutto chiusa. Nonostante i cittadini islandesi si siano pronunciati per ben due volte sulla questione, è ancora aperta la controversia a livello internazionale, con Inghilterra ed Olanda che si sono tutt'altro che rassegnate a veder sfumare i propri investimenti.


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Gli islandesi si erano arricchiti con i soldi delle banche? “Finché le cose andavano bene erano tutti contenti, poi quando si sono messe male nessuno vuole pagare”, è un altro dei commenti ricorrenti. Certo, lo sviluppo sfrenato porta ricchezza e benessere, si sa. Ma è bene notare che: 1. chi si arricchisce veramente è un numero molto limitato di persone e nel caso Islandese le ricchezze accumulate dai banchieri non sono paragonabili con quelle 'di riflesso' degli altri cittadini; 2. chi è responsabile dello sviluppo sfrenato è anche consapevole delle fragili basi su cui esso posa, mentre i cittadini sono spesso indotti a credere che tale sviluppo sia solido e potenzialmente infinito; 3. la critica che rivolgiamo agli islandesi potremmo rivolgerla a noi stessi, visto che anche noi abbiamo goduto di un modello sociale non deciso da noi, ed ora ci prepariamo a pagare il conto (ed immagino non ci verrà fatta una colpa se cercheremo di pagarlo il meno salato possibile).

Il punto qui è un altro. Stiamo uscendo – noi, gran parte del mondo – in modo piuttosto brusco e doloroso da un periodo di crescita sfrenata e di benessere diffuso. Andiamo certamente verso una fase di maggiori ristrettezze, inutile negarlo. La via d'uscita indicata come inevitabile dai potentati finanziari internazionali passa per privatizzazioni, perdita di diritti, rinuncia alla sovranità popolare. L'Islanda indica un'altra via percorribile.

In Italia potrebbe accadere quanto accaduto in Islanda? No, ma ciò non vuol dire che i cittadini italiani – ed europei – non possano imparare niente dalla faccenda islandese, anzi. La dinamica degli eventi è sicuramente dipesa da alcune caratteristiche peculiari del paese nordico. Pochi abitanti (circa 320mila) sparsi su un territorio vasto e ricco di risorse, un'economia con un peso specifico relativamente basso all'interno delle dinamiche europee e mondiali, una situazione - anche geografica – di relativi isolamento e indipendenza e – soprattutto – un debito che ammontava a neppure quattro miliardi di euro. L'Italia ha un debito pubblico di quasi 2mila miliardi, per l'esattezza 1897,472 miliardi (dato relativo al mese di maggio 2011). Se i cittadini italiani decidessero di non pagare quel debito farebbero crollare all'istante l'intera economia europea, e buona parte di quella mondiale.

La questione del debito è cosa decisamente complessa. Per ogni stato col cappio al collo, strozzato dal debito, c'è un paese creditore che senza quel credito si troverebbe nella medesima situazione. È un equilibrio delicato, un castello di carte nel quale basta il crollo di un elemento per scatenare un terrificante effetto a catena. Dunque gli stati si tengono in vita l'un l'altro, alimentando all'infinito i rispettivi debiti, in un meccanismo perverso e senza alcuna prospettiva di uscita.


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Cosa può insegnarci la faccenda islandese? In realtà molte cose, alcune delle quali le abbiamo già dette ma le ripetiamo. In primis che la via d'uscita dalla crisi che viene imposta dall'alto non è inevitabile. Da sempre le crisi economiche, necessarie al sistema di sviluppo capitalista – e ancor più a quello consumista – per potersi autoalimentare, hanno avuto come conseguenza una maggiore concentrazione delle ricchezze e del potere nelle mani di pochi, e la perdita dei diritti e dei beni da parte delle popolazioni. Oggi, forse per la prima volta nella storia, i cittadini hanno modo di essere informati e consapevoli di quello che gli sta accadendo attorno. Possono consapevolmente non accettare quello che gli viene imposto dall'alto, decidere di ribellarsi e di non lasciarsi portar via ciò che appartiene loro. La crisi si può trasformare in un enorme incubatore di democrazia.

Siamo ad un bivio, all'inizio di un percorso. L'Islanda ci insegna che il popolo sovrano è in grado di decidere quale strada imboccare. La strada europea, quella degli aiuti da parte di Bce e Fmi e della svendita a privati dell'intero settore pubblico, della rinuncia ai beni comuni e ai diritti; oppure la strada islandese, della riappropriazione dei diritti e del potere decisionale, della democrazia diretta e partecipata che detta l'agenda a quella rappresentativa.

Certo le differenze con lo stato nordico restano molte, ma nella vicenda islandese non dobbiamo pretendere di trovare una soluzione, piuttosto l'indicazione di un percorso. È vero, forse non potremo decidere di annullare il nostro debito estero. Ma potremo usarlo a nostro vantaggio. Questo potrebbe infatti rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio per chi lo usa come strumento neocoloniale per appropriarsi di 'pezzi' di sovranità altrui e rubare i diritti dei popoli. Il debito italiano è una pistola alla tempia dell'Unione europea.

Certo, sarà difficile iniziare un percorso di democrazia partecipata come quello islandese: loro sono 320mila, noi 60 milioni. Ma ci sono segnali confortanti - primo fra tutti quello degli ultimi referendum - che dicono che sulle questioni importanti non è poi così difficile fare fronte comune. L'Islanda ha aperto uno spiraglio, sta a noi creare un varco, e quindi un sentiero realmente percorribile.


Preso da: www.ilcambiamento.it
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In Islanda la Costituzione viene scritta da tutti online

11/1/2011

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giovedì, luglio 7th, 2011

La rivoluzione islandese. Non ci sono solo vulcani che fanno notizia, c’è anche la rivoluzione dei 320 mila abitanti dell’isola che in pochi mesi hanno fatto dimettere il governo, incriminato i banchieri, cancellato il debito estero e ora stanno scrivendo online la loro Costituzione.

Da aprile, con cadenza settimanale l’Assemblea Costituente pubblica sul suo sito le bozze del progetto. E tutti sono invitati a condividere le loro idee sul sito o attraverso i social network.

Oltre ad essere presente sulla rete attraverso Facebook e Twitter, le sue riunioni sono aperte al pubblico. Non era mai successo prima che il web fosse il motore della realizzazione di una Costituzione nazionale nel pieno rispetto della democrazia partecipata. Alcuni partiti politici in Europa hanno realizzato i propri statuti o la propria carta dei valori attraverso sistemi wiki. Ma mai si è arrivati a tanto.

Il fatto che l’Islanda sia abitata solo da 320mila cittadini rappresenta di per sé un grosso vantaggio nella realizzazione di un progetto simile. Ma bisogna anche ricordare che il web sull’isola rappresenta ormai un aspetto essenziale della vita quotidiana. Più della metà degli abitanti possiede un account Facebook, e chi non lo ha può partecipare al dibattito sul sito dell’assemblea costituente, visto che più dell’80% delle case islandesi possiede una linea Adsl. Tuttavia, non sarà sufficiente il web: la legge fondamentale dovrà essere approvata con il classico metodo del referendum

L’esperimento in  corso è abbastanza ignorato dai media italiani. Sarà anche perché segue una piccola rivoluzione precedente, quella dell’aver fatto dimettere il governo e cancellato il debito estero verso la Gran Bretagna, in un’operrazione che ha portato a mettere sotto inchiesta i banchieri dell’isola.

Qui di seguito riprendo da Facebook il commento di un osservatore italiano giustamente indignato del silenzio su tutta la materia.

NESSUNA NOTIZIA DALL’ISLANDA?
  • 6 luglio 2011
STORIE DI ORDINARIA RIVOLUZIONE…

Di Marco Pala

Nexusedizioni

Qualcuno crede ancora che non vi sia censura al giorno d’oggi? Allora perchè, se da un lato siamo stati informati su tutto quello che sta succedendo in Egitto, dall’altro i mass-media non hanno sprecato una sola parola su ciò che sta accadendo in Islanda?

Il popolo islandese è riuscito a far dimettere un governo al completo; sono state nazionalizzate le principali banche commerciali; i cittadini hanno deciso all’unanimità di dichiarare l’insolvenza del debito che le stesse banche avevano sottoscritto con la Gran Bretagna e con l’Olanda, forti dell’inadeguatezza della loro politica finanziaria; infine, è stata creata un’assemblea popolare per riscrivere l’intera Costituzione. Il tutto in maniera pacifica. Una vera e propria Rivoluzione contro il potere che aveva condotto l’Islanda verso il recente collasso economico.

Sicuramente vi starete chiedendo perchè questi eventi non siano stati resi pubblici durante gli ultimi due anni. La risposta ci conduce verso un’altra domanda, ancora più mortificante: cosa accadrebbe se il resto dei cittadini europei prendessero esempio dai “concittadini” islandesi?

Ecco brevemente la cronologia dei fatti:

  • 2008 – A Settembre viene nazionalizzata la più importante banca dell’Islanda, la Glitnir Bank. La moneta crolla e la Borsa sospende tutte le attività: il paese viene dichiarato in bancarotta.
  • 2009 – A Gennaio le proteste dei cittadini di fronte al Parlamento provocano le dimissioni del Primo Ministro Geir Haarde e di tutto il Governo – la Alleanza Social-Democratica (Samfylkingin) – costringendo il Paese alle elezioni anticipate. La situazione economica resta precaria. Il Parlamento propone una legge che prevede il risanamento del debito nei confronti di Gran Bretagna e Olanda, attraverso il pagamento di 3,5 MILIARDI di Euro che avrebbe gravato su ogni famiglia islandese, mensilmente, per la durata di 15 anni e con un tasso di interesse del 5,5%
  • 2010 – I cittadini ritornano a occupare le piazze e chiedono a gran voce di sottoporre a Referendum il provvedimento sopracitato.
  • 2011 – A Febbraio il Presidente Olafur Grimsson pone il veto alla ratifica della legge e annuncia il Referendum consultivo popolare. Le votazioni si tengono a Marzo ed i NO al pagamento del debito stravincono con il 93% dei voti. Nel frattempo, il Governo ha disposto le inchieste per determinare giuridicamente le responsabilità civili e penali della crisi. Vengono emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo. L’Interpol si incarica di ricercare e catturare i condannati: tutti i banchieri implicati abbandonano l’Islanda. In questo contesto di crisi, viene eletta un’Assemblea per redigere una Nuova Costituzione che possa incorporare le lezioni apprese durante la crisi e che sostituisca l’attuale Costituzione (basata sul modello di quella Danese). Per lo scopo, ci si rivolge direttamente al Popolo Sovrano: vengono eletti legalmente 25 cittadini, liberi da affiliazione politica, tra i 522 che si sono presentati alle votazioni. Gli unici due vincoli per la candidatura, a parte quello di essere liberi dalla tessera di qualsiasi partito, erano quelli di essere maggiorenni e di disporre delle firme di almeno 30 sostenitori. La nuova Assemblea Costituzionale inizia il suo lavoro in Febbraio e presenta un progetto chiamato Magna Carta nel quale confluiscono la maggiorparte delle “linee guida” prodotte in modo consensuale nel corso delle diverse assemblee popolari che hanno avuto luogo in tutto il Paese. La Magna Carta dovrà essere sottoposta all’approvazione del Parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni legislative che si terranno.
Questa è stata, in sintesi, la breve storia della Ri-evoluzione democratica islandese.
Abbiamo forse sentito parlare di tutto ciò nei mezzi di comunicazione europei?
Abbiamo ricevuto un qualsiasi commento su questi avvenimenti nei noiosissimi salotti politici televisivi o nelle tribune elettorali radiofoniche?
Abbiamo visto nella nostra beneamata Televisione anche un solo fotogramma che raccontasse qualcuno di questi momenti?

SINCERAMENTE NO.

I cittadini islandesi sono riusciti a dare una lezione di Democrazia Diretta e di Sovranità Popolare e Monetaria a tutta l’Europa, opponendosi pacificamente al Sistema ed esaltando il potere della cittadinanza di fronte agli occhi indifferenti del mondo.
Siamo davvero sicuri che non ci sia “censura” o manipolazione nei mass-media?
Il minimo che possiamo fare è prendere coscienza di questa romantica storia di piazza e farla diventare leggenda, divulgandola tra i nostri contatti. Per farlo possiamo usare i mezzi che più ci aggradano: i “nostalgici” potranno usare il telefono, gli “appassionati” potranno parlarne davanti a una birra al Bar dello Sport o subito dopo un caffè al Corso.
I più “tecnologicamente avanzati” potranno fare un copia/incolla e spammare questo racconto via e-mail oppure, con un semplice click sui pulsanti di condivisione dei Social Network in fondo all’articolo, lanciare una salvifica catena di Sant’Antonio su Facebook, Twitter, Digg o GoogleBuzz. I “guru del web” si sentiranno il dovere di riportare, a modo loro, questa fantastica lezione di civiltà, montando un video su YouTube, postando un articolo ad effetto sui loro blog personali o iniziando un nuovo thread nei loro forum preferiti.

L’importante è che, finalmente, abbiamo la possibilità di bypassare la manipolazione mediatica dell’informazione ed abbattere così il castello di carte di questa politica bipartitica, sempre più servile agli interessi economici delle banche d’affari e delle corporazioni multinazionali e sempre più lontana dal nostro Bene Comune.
In fede,

il cittadino sovrano Marco Pala
(alias “marcpoling”)

http://www.vocidallastrada.com/2011/07/nessuna-notizia-dallislanda.html
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